Corriere della sera – La Lettura – 07.02.2021 – Carlo Vulpino –
Cinquant’anni fa, febbraio 1971, il regista firmò il contratto per un film che avrebbe riscritto la storia del cinema. Ad aprile cominciò le riprese. Non a New York, ma in Sicilia. Il paese del boss però non era abbastanza scenografico. Allora la troupe si spostò tra Messina e Catania.
Dove tutto era cinematograficamente «mafioso» al punto giusto. «La lettura» ci è tornata.
L’offerta della Paramount Pictures a Francis Ford Coppola per dirigere il film Il Padrino era di quelle che non si potevano rifiutare, per dirla con una delle frasi di culto pronunciate da don Vito Corleone, il protagonista del film (Marlon Brando) e del romanzo omonimo di Mario Puzo, pubblicato nel 1969. E così, esattamente cinquant’anni fa, a febbraio del 1971, Coppola firmò il contratto con il colosso cinematografico americano e, insieme con Puzo, scrisse anche la sceneggiatura. Ad aprile cominciarono le riprese e a dicembre il film era pronto, grazie anche a due maghi del montaggio quali William Reynolds e Peter Zinner. All’inizio dell’anno successivo, il film venne proiettato nelle sale americane e a ottobre in quelle italiane. Successo strepitoso, file di ore per acquistare un biglietto, record di incassi, tante polemiche sui giornali, che fanno sempre bene, e tre premi Oscar. Puzo era uno scrittore squattrinato e con la cessione dei diritti del libro poté pagare i suoi debiti e assicurarsi un futuro, mentre Coppola, che nel 1970 aveva vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura con il film Patton, generale d’acciaio, era ormai a un passo dal diventare Coppola, uno dei più grandi registi della storia del cinema. Entrambi, Puzo e Coppola, in questa storia avevano un grande vantaggio su tutti gli altri, anche sulla Paramount e la sua barca di dollari. Erano sì, nati negli Stati Uniti — Coppola a Detroit e Puzo a New York – ma erano italoamericani di origini meridionali. Puzo non avrebbe potuto scrivere il libro così come lo ha scritto se non fosse stato uno degli otto figli di una coppia di emigranti di Pietradefusi (Avellino) e Coppola non avrebbe potuto realizzare il suo capolavoro se i suoi nonni paterni e materni non fossero sbarcati in America rispettivamente da Bernalda (Matera) e da Foggia. Soltanto chi era in grado di decifrare un linguaggio per averlo conosciuto attraverso le parole e le tradizioni familiari, avrebbe potuto scrivere un libro e girare un film che non si limitano a parlare di gangster, ma riescono a raccontare un mondo, una cultura, un sistema di rapporti sociali e rapporti di forza nel quale è nato e si è sviluppato quel modo di essere e di comportarsi che chiamiamo mafia e che dalla Sicilia riuscì ad attecchire negli Stati Uniti. Puzo e Coppola erano quindi perfetti. Forse troppo, almeno per i manager della Paramount. I quali non capivano l’insistenza dei due, e soprattutto del regista, nel voler girare le scene «siciliane>> in Sicilia e non negli studios di New York.
Girare in Sicilia le scene dell’infanzia di Vito Andolini, colui che diventerà The Godfather, il Padrino, e poi tutte le altre ambientate nell’isola nei due film successivi – Il Padrino parte seconda del 1974 e parte terza del 1990 diventa per Coppola questione dirimente, al punto da minacciare di rompere il contratto e rinunciare a dirigere il film. Se tutto nasceva dall’assassinio a Corleone del padre del piccolo Vito Andolini che nel film, per un errore dell’ufficio immigrazione in America, verrà registrato con il cognome del paese natio e da quel momento diventerà Vito Corleone Robert De Niro) ebbene, era a Corleone che si doveva portare la macchina da presa ed era lì che si dovevano girare le parti della storia ambientate negli anni precedenti e successivi alla Seconda guerra mondiale. Corleone però, per quanto luogo suggestivo per un film che avrebbe parlato di mafia, non risultò soddisfacente per ciò che aveva in mente Coppola, in particolare per alcune scene chiave che dovevano richiamare perfettamente quello e tutti i paesi della Sicilia interna pre e post-bellica. Come fare? Non si poteva certo pretendere di trovare un luogo ideale, completo di li tutte le caratteristiche necessarie ai passaggi fondamentali della storia. La soluzione arrivò attraverso una serie di sopralluoghi — suggeriti ai referenti italiani della Paramount dall’allora giovane barone Franco Platania di Santa Lucia — non più a Corleone, ma nella parte opposta dell’isola, in Sicilia orientale, tra Messina e Catania, sotto la maestosa onnipresenza dell’Etna. Sarebbero diventati Corleone quattro posti incantevoli Savoca, Forza d’Agrò, Motta Camastra e il Castello degli Schiavi a Fiumefreddo i quali, «cuciti» l’uno all’altro con un sapiente montaggio avrebbero restituito la Corleone voluta da Coppola. Con il vantaggio che attori e maestranze avrebbero alloggiato a Taormina, praticamente equidistante dai quattro comuni. Per Franco Platania, tutt’ora proprietario del Castello degli Schiavi, la scelta del suo palazzo del XVIII secolo, raffinato esempio di barocco siciliano, come set di scene importanti della Corleone simulata del film, fu un colpo di fortuna. Tre milioni di lire al giorno per trenta giorni di riprese solo per il primo dei tre film. «In questo palazzo e in questa tenuta dice Platania a “la Lettura” – sono state girate scene della intera trilogia del Padrino. Dall’esplosione, nel Padrino 1, dell’auto con a bordo Apollonia (Simonetta Stefanelli), la prima moglie di Michael Corleone (Al Pacino), figlio di don Vito, fino ai meeting della famiglia Corleone nel Padrino II e alla morte in solitudine di Michael nel Padrino III».
Il nome del castello con gli schiavi non c’entra nulla. È solo frutto di una leggenda, dato che in realtà indica gli «scavi», cioè la cava di pietra lavica preesistente sotto questi undici bellissimi ettari di agrumeti a due passi dal mare. Ma nessuno raccoglie le arance di questa e delle campagne vicine. I frutti restano attaccati agli alberi perché raccoglierli non conviene, secondo l’eterno copione di una politica agricola nazionale che penalizza le arance e i limoni siciliani, oggi come all’epoca delle riprese del film. Ovvio che la famiglia Platania accettasse subito l’offerta della Paramount e che per Franco Platania, che allora aveva 28 anni, quella fosse l’occasione della vita. «Mi si spalanco un mondo ignoto e affascinante — racconta —. Conobbi Coppola, De Niro, AI Pacino, Diane Keaton, Robert Duvall, Nino Rota, che compose le bellissime musiche della colonna sonora. Coppola era gentilissimo e affabile, attento ai prezzi di ogni cosa. Ricordo che un giorno fra tre bottiglie di olio scelse quella che costava meno. Al Pacino e Diane Keaton, invece, davano pochissima confidenza a tutti e se ne stavano sempre per conto loro. De Niro era il più simpatico, sempre pronto a un sorriso e allo scherzo. Ti metteva a tuo agio. Diventammo subito amici».
Non solo Fiumefreddo. La «Corleone» di Francis Coppola prese corpo tra i costoni di roccia di Motta Camastra, che sovrasta in maniera spettacolare il parco fluviale delle Gole dell’Alcantara, e nelle vie di Savoca e di Forza d’Agrò, annoverati tra i borghi più belli d’Italia. Tutti questi luoghi, visti da vicino cinquant’anni dopo, suscitano la stessa riflessione: sembra incredibile cosa sia riuscito a fare con poche inquadrature Francis Coppola in ognuno di essi. Davanti al palazzotto Trimarchi e alla chiesa di San Nicolò, a Savoca, per esempio. Il palazzo, una dimora nobiliare del XVIII secolo, viene trasformata nel «Bar Vitelli», dove il giovane Michael Corleone chiede di conoscere la figlia del proprietario, Apollonia, che sposerà nella vicina chiesa di San Nicolò, del XIII secolo, secondo la tradizione, con corteo matrimoniale per le vie del paese e festa all’aperto. Da allora, non è stato toccato nulla, nemmeno l’insegna pubblicitaria «Itala – Pilsen – birra superiore» accanto all’ingresso del «Bar Vitelli». L’unica novità, dopo il grande successo del film, è stata il tributo a Francis Coppola, una scultura in acciaio nella piazzetta antistante, saldata alla ringhiera del belvedere sul mare, che ritrae il regista alla macchina da presa. Stesso discorso per Forza d’Agrò, che dai suoi 420 metri di altitudine domina la meravigliosa baia di Taormina e dove, tra le chiese di Sant’Annunziata (inizi del Settecento) e della Trinità (metà Cinquecento), l’Arco Durazzesco del XV secolo e il convento agostiniano del 1608, sono state girate le scene del Padrino III, con Michael Corleone e Diane Keaton, ormai ex coniugi, che si ritrovano in Sicilia con i loro due figli. È l’ultima festa prima della tragedia finale, ambientata nel Teatro Massimo di Palermo. Michael Corleone, figlio del Padrino don Vito Corleone e Padrino a sua volta, scoprirà che è stato tutto inutile, persino il suo tentativo di elevarsi socialmente: «Credevo che in alto tutto fosse legale e corretto dice — ma più in alto salgo e più il fetore aumenta». E scopre un mondo peggiore, in cui «l’arma più potente è la finanza, mentre la politica è sapere quando premere il grilletto».
L’anno scorso, in occasione dei trent’anni dell’ultimo film della trilogia,
Francis Coppola ha rieditato il Padrino III, cambiandogli il titolo che in italiano è diventato Il Padrino Coda: La morte di Michael Corleone e soprattutto cambiando l’inizio e la fine. Questa volta Michael non muore, o meglio, muore diversamente. Resta lì, solo, seduto su una sedia nel cortile del Castello degli Schiavi di Fiumefreddo, condannato a vivere. E a meditare sul suo inferno in Terra, mentre sullo schermo scorre questa frase:
«Quando i siciliani ti augurano “cent’anni” è un augurio per una lunga vita… e i siciliani non dimenticano».
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